“Parkin’son”, la danza struggente di padre e figlio per raccontare il morbo

image“Uno dei miei primi ricordi da bambino è mio padre che guida in auto e canta ‘Il mondo’…”. Sono proprio le parole e le note della canzone di Jimmy Fontana a introdurre nel silenzio di un palco, il profondo e commovente racconto proposto dallo spettacolo di danza  “Parkin’son”, storia reale e ancora attuale di Stefano e Giulio D’Anna, un padre e suo figlio. Terapista over 60, affetto dal morbo di Parkinson e senza una formazione di danza il primo, giovane coreografo e danzatore il secondo, due generazioni a confronto, che si parlano attraverso un’intensa comunicazione corporea. Ma cosa ci possono raccontare “due corpi essendo, allo stesso tempo, l’uno l’idea del futuro e l’altro quella del passato? In “Parkin’son” i due interpreti, esplorano la loro relazione “una collezione di eventi personali, drammatici e non, che trovano la propria testimonianza sulle linee della pelle e sulle forme di due corpi legati dal sangue e dalla propria storia”.

Una bella storia, da condividere nella giornata mondiale dedicata al Parkinson che si celebra oggi, 11 aprile, in occasione dell’anniversario della nascita di Sir James Parkinson, scopritore della malattia. Seconda patologia neurodegenerativa in ordine di frequenza dopo l’Alzheimer, la sindrome, colpisce in Italia oltre 230 mila persone, delle quali circa il 5% con un’età inferiore ai 50 anni, nel mondo si contano oltre 4 milioni di malati, e stando a studi indipendenti, entro il 2030 il loro numero raggiungerà circa 8,7 milioni. “Parkin’son” rappresenta la sfida di un figlio che per affrontare la malattia del genitore, decide di coinvolgerlo in un progetto di danza in cui raccontare la loro personale esperienza familiare e il coraggio di un padre nel rispondere sì. La forma artistica si rivela un ottimo mezzo grazie al quale sensibilizzare il pubblico circa gli effetti della parkinson, le ricadute sugli individui, le famiglie e la comunità.

imageQuestione di equilibri.“L’arte ci aiuta nel trovarci, nel perderci, nel sentire, nel comprendere, scrive il coreografo Giulio D’Anna. Credo ci aiuti a essere pienamente esseri umani, qualsiasi cosa questo ‘ruolo’ possa voler dire per ognuno di noi”. Il movimento dei due protagonisti crea una “partitura che si muove tra teatro e astratto dove la malattia marca limiti da oltrepassare”.  Padre e figlio si confrontano e confortano a momenti alterni e la malattia è qualcosa che unisce, in un processo che non è solo di chi la subisce, ma è anche nell’intimo di colui che lo affianca,  passo dopo passo. Il progetto è al tempo stesso “un diario e un manifesto, un’esorcizzazione” dove le percezioni del tempo, passato, presente e futuro, si mescolano attraverso nozioni personali e scientifiche”.

La malattia fa parte di un gruppo di patologie definite “disordini del movimento”, in un crescendo in cui il disordine diventa gesto e danza, tra incontro e scontro, abbracci, schiaffi, piroette, tremori, rigidità, lentezza dei movimenti e perdita dell’equilibrio,i D’Anna riescono nell’arduo intento di raccontare un processo esistenziale fisico ed emotivo e, nello stesso tempo, evidenziare le reazioni dei principali sintomi della malattia. Lo spettacolo che è stato vincitore del “Premio Equilibrio 2011” l’appuntamento dedicato alla danza contemporanea italiana, “nasce dal desiderio di usare ‘il limite’ come fonte di possibilità e raccontare le due storie con la scansione cronologica delle vite illustri, puntando all’esaltazione di momenti e fatti che, ad un occhio esterno, potrebbero non sembrare degni di nota ma che rendono l’esistenza memorabile”. La malattia non è sullo sfondo è nel centro, entra, si insinua, ma non frena, perché le spalle di un padre sono grandi per affrontarla e quelle del figlio, ora uomo, sono pronte a sostenerlo attraverso l’amore. In fondo, come cantava e canta papà D’Anna “Il mondo. Non si è fermato mai un momento. La notte insegue sempre il giorno. Ed il giorno verrà”. (Slup)

Fonte:Redattore sociale

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