Category: ANNO II 2012

L’arte senza frontiere sbarca nelle Marche

L’associazione Art sem fronteira apre un circolo culturale e centro artistico a Casabianca (Fermo). L’appello del fondatore Tony Santos, musicista e performer: “Porte aperte a idee all’insegna dello scambio culturale”. Inaugurazione il 22 dicembre

Fermo – Art sem frontiera, l’associazione creata dal musicista e insegnante di percussioni e capoeira brasiliano Tony Santos, sbarca a Casabianca. Il locale è l’Upside down (di fronte all’Hotel Royal), che diventa circolo culturale e centro artistico. Arte a 360 gradi e cultura da ogni angolo del mondo: sono queste le due anime del progetto che aprirà i battenti sabato 22 dicembre. L’inaugurazione prevede a partire dalle 17 il tesseramento dei soci; a seguire buffet, cena sociale, musica dal vivo, jam session, dj set e l’esibizione della compagnia di danza di Manuela Recchi. Spazio anche alla presentazione del programma invernale dell’associazione, al dibattito e alla proiezione della retrospettiva delle attività svolte da Art sem frontiera nel 2012.
Una delle colonne portanti dell’associazione sono le lezioni di musica: Tony Santos infatti da anni insegna percussioni a bambini e adulti. Ma il locale sarà aperto anche a tutti coloro che vogliono organizzare corsi di qualunque strumento e utilizzare la sala prove. Spazio anche al teatro: il circolo apre le porte alle compagnie per prove ed esibizioni. Poi ci saranno le serate dedicate alle mostre; alle presentazioni di libri; alle performance artistiche. Il tutto contornato dalla ristorazione, con un’attenzione particolare ai prodotti biologici, il locale infatti è dotato di bar e cucina.

I progetti in corso e futuri. Le attività di Art sem frontiera hanno un respiro ampio, vicino al sociale e sono tanti i progetti in cantiere, dalla costruzione del Villaggio Artistico a Natal, nel Nord del Brasile, dove gli artisti possano vivere insieme e occuparsi dell’educazione dei bambini, fino ai laboratori interculturali nelle scuole per gli alunni disabili e non.

L’obiettivo di Art sem fronteira. “Dalla collaborazione tra me e Alia Drini, mio amico nato a Podgorica, è nata l’idea di prendere la gestione di questo locale. Idea resa possibile poi dalla proprietaria ha creduto in quello che facciamo”, spiega Tony Santos. “Il nostro obiettivo – continua – è stimolare le idee, soprattutto quelle dei giovani, perché crediamo che di questo ci sia bisogno”. L’associazione lancia anche una sfida sociale, quella di promuovere la convivenza tra nazionalità diverse: infatti i soci sono sia italiani sia stranieri. A partire dal suo fondatore, Tony Santos, che incarna la musica, la danza e la cultura del Brasile e da Manuela Recchi, civitanovese, laureata all’Accademia di danza di Roma e professoressa di danza classica, contemporanea, afro e pilates. “La mia sensazione – spiega Tony Santos – è che qui manchino opportunità a livello artistico e culturale”. La causa è presto detta: “C’è troppa competizione, è questo che ostacola l’interscambio, la crescita e la libertà degli artisti. Per questo noi abbiamo voluto questo spazio, per dare espressione alla creatività senza alcuna barriera, perché è così che concepiamo l’arte. Spesso comuni e province non sono sensibili in questo senso e mostrano di non voler valorizzare gli artisti facendo mancare loro l’appoggio che meriterebbero”.

L’Italia vista dagli occhi di un brasiliano. “Siamo monotoni, io direi che siamo in una sorta di ‘depressione sociale’: voglio dire che siamo fermi, non si dialoga, e io vedo intorno a me quella che chiamo ‘infelicità dell’anima’”. Gli effetti? “Si chiamano intolleranza, tabù, ignoranza, egoismo, competizione. E’ un po’ come se fossimo  tornati a un periodo di schiavitù, dove i cittadini sono asserviti alle cose materiali e sempre meno guidati dall’anima. Credo che lo Spirito abbia abbandonato tanti luoghi del mondo, che non sono più fertili e l’Italia  è uno di questi. Lo dico senza alcuna volontà di criticare, ma perché vivo questa situazione con disagio. Allora il mio sogno è andare oltre la banalità e invertire la tendenza”. Come? “Con la volontà collettiva di coltivare bellezza”.

Il Brasile e la rincorsa della crescita economica. “Il Brasile sta crescendo economicamente a una velocità che non è positiva per la popolazione, il povero si sta illudendo che diventerà ricco, è come se il bambino diventasse subito uomo, è un trauma che lascia segni. Di contro, il mio Paese ha un’infinita ricchezza culturale, è uno di quelli che più appoggia più la cultura. Ma ora la crescita economica sta spazzando via tutto: si ammazzano gli indios per costruire le centrali idroelettriche, distruggendo ettari di terra della foresta amazzonica più le specie animali. Questo significa dare un calcio al polmone del mondo e la gente non se ne accorgerà fino a che non ci saranno reali problemi ecologici. Io vedo questo con gli occhi di un brasiliano che vive in Italia da oltre venti anni. E sono preoccupato, perché in Brasile c’è lo Spirito, ci sono le idee, la terra è fertile, ma ho paura che sarà tutto questo a pagare le spese della crescita. Ma ancora di più sono preoccupato per l’Europa, dove questo processo ha già prodotto i suoi effetti”. (ab)

 

Fonte: Agenzia Redattore Sociale

Altidona e la fotografia immersiva: sentirsi nel luogo osservato

L’utilizzo delle nuove possibilità offerte dalla fotografia abbinata a Internet è un formidabile strumento di promozione del proprio territorio.

Da poco più di un anno è attiva ad Altidona nei locali comunali la Fototeca Provinciale di Fermo. I tecnici di cui si avvale la fototeca hanno realizzato un interessantissimo lavoro di ‘fotografia immersiva’ a 360 gradi sul centro storico di Altidona. Il progetto che è stato donato ai soggetti promotori dell’iniziativa, sarà presentato domenica 9 dicembre alle ore 17 nei locali della Fototeca.

“La sensazione di trovarsi nel luogo fotografato. Naviga la fotografia zoomando su qualsiasi  dettaglio”

A Milano Territorizzontali: dipinto murale, corale, sociale

Territorizzontali: 32 metri di collettività

Sulla facciata esterna dell’Armenia Films, uno dei primi teatri di posa italiani, aperto nel 1911 dalla Società Anonima Milano Films, la più importante casa cinematografica lombarda attiva dal 1909 alla vigilia degli anni ’30, è stato realizzato Territorizzontali, un dipinto murale di 32 metri, progettato da 119 abitanti (di ogni età e provenienza) del quartiere Bovisa  e realizzato dal collettivo F84, un gruppo di sei giovani artisti under 25 laureati alla NABA. Il muro di cinta in stato di abbandono e degrado su cui è stato creato il dipinto ha un’importante valenza storica.

Il progetto è stato sovvenzionato dalla cooperativa “Bovisa90 – La casa ecologica” e patrocinato dal Consiglio di Zona9 del Comune di Milano. Per la presentazione del progetto che avverrà venerdì 30 novembre alle ore 14.30, verrà letta una riflessione scritta appositamente per l’evento dal noto regista Ermanno Olmi.

“Un processo creativo orizzontale e partecipativo” così il collettivo definisce il progetto, in cui il contributo degli abitanti del quartiere è diventato parte integrante del percorso. L’opera collettiva “rappresenta il quartiere del passato e del presente: il fascio luminoso dei proiettori d’inizio secolo proietta desideri, memoria e identità creativa del quartiere di oggi”. Mentre i lavori hanno preso il via il 17 giugno 2011: il collettivo F84 ha allestito un tavolo di lavoro in via Maffucci a Milano, invitando i passanti a partecipare alla creazione del bozzetto di un murale per il quartiere, mettendo a loro disposizione vari materiali grafici e un archivio di immagini storiche legate al territorio di Bovisa e alla storia del cinema milanese. L’operazione è stata ripetuta domenica 19 giugno 2011 presso piazza Alfieri a Milano, riscontrando una numerosa partecipazione.

II dipinto murale – illuminato da due grandi fasci luminosi emessi da antichi cineproiettori – sarà inaugurato il 30 novembre – al Parco Armenia Films. Entrata via Baldinucci 29, Milano (h. 14.30).

Società: la ‘patologia del tempo’ tra noia, insofferenza e mai colpa

Attualmente il tempo sembra sempre esaurirsi in un “eterno presente”, pensato come uno spettro di possibilità nel quale però non è possibile individuare successioni ordinate, in una immediatezza e in un’assenza di mediazione priva di articolazione riflessiva tra presente, passato e futuro. Il presente o è vissuto come esperienza che resterà per sempre, realtà che una volta accaduta rimarrà indelebile, oppure come momento fuggevole, inconsistente “che non è alcunché”, in un tempo che non ha più misura “durevole”, troppo breve per realizzare qualsiasi azione che possa divenire racconto.  Edito da FrancoAngeli (2012) il libro di Cristian Muscelli e Giovanni Stanghellini “Istantaneità. Cultura e psicopatologia della temporalità contemporanea”, ha il chiaro obiettivo di rintracciare quella corrispondenza tra una data cultura e le forme di psicopatologia che ne sono in qualche modo la cifra. Il tempo, che ha una sua influenza sia sulla patologia che sulla cultura, diventa uno strumento particolarmente efficace per la comprensione dell’uomo. Orientarsi nella coscienza del tempo è orientarsi nell’esistenza.

Nella tarda modernità dal modello temporale della velocità si è passati a quello dell’istantaneità – scrivono gli autori – la cui matrice è divenuta la tecnica, che ne è la condizione di possibilità. Tale passaggio ha segnato una cambiamento radicale: essere contemporanei si traduce “nell’impossibilità di valutare retrospettivamente e di anticipare le conseguenze. Né storia, né responsabilità per la storia”. La tecnica ha generato e sostenuto la fede nella velocità e nell’accelerazione, ha annullato tempi e distanze, ha abolito corpi e polverizzato lo spazio. E’ possibile trasferire le notizie in “tempo reale”, con le tecniche dell’informazione possiamo vivere in più realtà simultanee, essere contemporaneamente in più posti, essere dove “non si è” fisicamente. Questo ha modificato il rapporto con il nostro corpo, con il corpo altrui e la percezione dello spazio, è avvenuta una mutazione antropologica che ha emarginato i valori legati alla promessa e alla memoria. In tale spazio sono favoriti gli individui sincronizzati a un certo ritmo, al ‘passo coi tempi’, capaci di liberarsi da “vecchie” identificazioni, programmi o pianificazioni. Svantaggiate invece, risultano tutte quelle persone, il cui tempo interno è orientato al futuro, nel senso del cambiamento e del progresso. Nell’era dell’istantaneità il tempo implicito individuale giunge a una tale estremizzazione, che il tempo personale si desincronizza da quello collettivo. Risparmiare tempo è diventato uno scopo fine a se stesso, in questaefficiente velocità – sottolineano Muscelli e Stanghellini – la dipendenza degli altri è tacciata di parassitismo: gli stessi fautori del ‘welfare state’,  possono essere percepiti come pesi che rallentano la società, l’economia, il progresso e la libertà. L’uomo ideale deve essere autosufficiente, forte, mai dipendente dagli altri, mai bisognoso. La dipendenza è fallimento, debolezza, vergogna e in questa esaltazione dell’indipendenza le persone si sentono più fragili ed esposte. L’uomo moderno cerca di raggiungere il più alto livello di efficienza a volte anche attraverso l’uso di sostanze (dal caffè alla cocaina) e sviluppa per la fretta (figlia della velocità) forme di mobilità sociale sempre più accentuate: precarietà, flessibilità…

La bussola che guida la ricerca è quindi il modo in cui il tempo oggi è vissuto e concettualizzato, che viene preso come la misura del ‘mondo’ che si esprime ora nella patologia, ora nella norma sociale, l’analisi mostra che l’immediatezza è articolata in due fenomeni che modificano il modo della percezione di se stessi e della relazione con l’altro, giungendo a definire una “sindrome temporale” e a identificare la correlazione tra le nuove forme di esistenza (con i loro disturbi) e la maniera di vivere il tempo. Nella cultura dell’istantaneità, la ‘patologia del tempo’ è principalmente una forma di “insofferenza”, la ‘patologia del presente’ si configura come senso di vuoto, di noia e mai come rimorso, rimpianto, pentimento. La colpa, è esclusa, non esiste, in queste forme di psicopatologia mentale, e se c’è, è dell’Altro. La storia individuale è strettamente collegata a quella sociale, nel trionfo del qui e ora, in un presente senza ieri, senza domani e senza profondità, occorre recuperare la ‘lunga durata’ per dare forma a un progetto e trasformare il fare, in esperienza concreta, ed esistenza reale. La lentezza delle azioni umane ha un senso: è la calma di cui si ha bisogno per essere coscienti di quello che si sta facendo e provarne piacere. In conclusione gli autori abbozzano una via d’uscita, una proposta culturale composta da tre passaggi, la lettura intera del testo svelerà quali. (s.lup.)

Fonte: Agenzia Redattore Sociale

La sindrome “dell’accumulo compulsivo” tra creatività e patologia

Alla fine degli anni Novanta una rete televisiva americana mandò in onda un programma dal titolo “Affluenza” che documentava la cultura americana del materialismo e del consumismo, come un disagio sociale in cui i beni prendevano il sopravvento sulle nostre vite. Oggi il digitale terrestre free “Real Time” propone allo spettatore tutti i lunedì dopo le 23 “Sepolti in casa” un condensato di immagini e storie scioccanti (vai la photogallery di RealTime) di case non più vivibili e persone in difficoltà a causa del loro bisogno ossessivo di procurarsi, senza utilizzare né buttare via, una notevole quantità di beni. Studi recenti dichiarano che dai 6 ai 15 milioni di americani soffrono di “disposofobia”, una malattia che causa non poche difficoltà nella vita quotidiana. Il New York Times a marzo del 2007 riportava che dal 1995 la quantità di depositi americani era aumentata del 90% e che più di 11 milioni di famiglie li noleggiavano, perché che non volevano separarsi di cose che forse un giorno avrebbero potuto utilizzare e che le loro case non potevano più contenere.

Alcuni oggetti esposti al Museo Guatelli

C’è anche da ribadire il concetto per cui “confusione e disordine” spesso sono stati anche definiti “indicatori di creatività ed efficienza”: molte persone di successo mancano di capacità di pianificazione e organizzazione di base e in questi casi il disordine viene celebrato, piuttosto che trattato come disturbo. È quando la disorganizzazione influisce sulla qualità della vita e i danni superano i benefici che il disturbo si affaccia. Restituendo un valore alla capacità di mantenere oggetti nel tempo, di recuperarli, di non buttarli, ci sono stati anche ‘accumulatori’ che hanno donato alla collettività beni sociali e culturali, traducendoli in veri e propri musei, è il caso di Ettore Guatelli (Collecchio, 18 aprile 1921 – 21 settembre 2000) maestro elementare, collezionista di cose e di storie, che ha accumulato nel tempo oltre 60 mila oggetti, trovandosi involontariamente coinvolto nel movimento di riscoperta della cultura materiale, che caratterizzò gli anni Settanta. “L’utilità delle cose anche quando queste sono state espulse dal quotidiano come scarti o rifiuti” questo il senso della raccolta Guatelli che del suo rapporto con gli oggetti diceva “sono entrato in comunione con loro, sento che parlano, a forza di starci insieme, di sentire la loro storia, di sentire la gente che ne parla, senti che non sono soltanto cose ma una parte dell’uomo”. Tra le tante definizioni che usava per descrivere la collezione a lui intitolata, Ettore Guatelli ricorreva spesso a quella di “museo dell’ovvio” oppure di “museo del quotidiano”.
Martelli, pinze, pale, forbici, botti, pestarole, scatole di biscotti, sedie ecc. ecc. sono loro che rivestono le pareti del  Museo Guatelli a Ozzano Taro Collecchio (Pr), seguono semplici e artistici motivi geometrici e riempiono i mobili e le mensole, creando un effetto scenografico carico di suggestioni visive e artistiche, capaci di evocare gesti quotidiani di vita contadina. Gli oggetti custoditi nel museo testimoniano la storia comune di uomini e donne “dell’età del pane”, quando il lavoro nei campi sostanziava di sé il profondo legame dell’uomo con la vita. (s.lup.)

Fonte: Agenzia Redattore Sociale

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